Celti e l’Invasione Romana

I Celti e l’Invasione Romana delle Gallie

di Jean de Galibier

 

Come ci testimonia una sepoltura scoperta nel 1882 a Bevaix vicino a Neuchâtel, il guerriero celta del periodo lateniano era armato di una lunga spada decorata affilata sui due lati, con fodero in ferro dolce, che una catena di fissaggio collegava al cinturone. L’armamento era completato, poi, da una lunga lancia dalla punta in ferro battuto a forma di fiamma (o fogliata), dotata di un puntale ferrato per poterla piantare a terra; uno scudo in legno con passamano in cuoio e umbone in ferro, bracciali in bronzo, una fibula in oro o argento per fissare il mantello.

Furono questi i guerrieri che, nel 5O avanti Cristo, si trovarono a fronteggiare le legioni romane comandate dal giovane console Caio Giulio Cesare.

 

Nell’ultimo paio di secoli, presso i Celti, era sorta una prima forma di organizzazione centralizzata con il consolidamento di grandi Re (Rix) nazionali per i principali popoli di lingua celtica. A questi Re dai poteri non ben definiti, giuravano fedeltà i reguli minori e a questi ultimi, i capi clan e i singoli guerrieri.

Tutto questo movimento di statalizzazione è confermato dal ritrovamento di numerose monete battute a imitazione di numerari più famosi come la dracma massaliota, recanti il nome di un re celtico locale. In questa fase di ristrutturazione tornarono a fiorire le fortificazioni sulle alture ( gli oppida), impiegati sempre più spesso solo come rifugi, in caso di pericolo, per gli abitanti del territorio circostante, che continuarono a vivere a valle nelle fattorie e nei piccoli villaggi.

 

In Europa sono stati ritrovati a tutt’oggi più di duecento di questi villaggi rifugio.

Come la fortificazione di epoca Hallastattiana questi oppida sono sistemati su alture o altre postazioni naturali facilmente difendibili.

Circondati dal famoso murus gallicus descritto da Cesare, gli oppida occupavano aree dai 2O agli oltre 40 ettari di superficie, di cui solo una parte veniva utilizzata per erigervi capanne e abitazioni, mentre l’altra veniva tenuta libera per riporvi il bestiame e gli agricoltori dei dintorni in caso di pericolo.

In questi oppida, dopo il 1OO avanti Cristo si era concentrato stabilmente un artigianato raffinato e di qualità. Tale periodo coincise anche con una ripresa del commercio tra mondo celtico e Italia del Nord, interrotto o perlomeno ridotto, negli ultimi due secoli.

I Celti importavano dall’Italia soprattutto vino Etrusco, vino Campano e altri vini mediterranei di cui i Galli andavano letteralmente pazzi, fino al punto di importarne a decine e a centinaia di migliaia di anfore all’anno.

 

Quando Cesare giunse in Gallia, le principali tribù possedevano ciascuna diversi oppida sparsi regolarmente sul proprio territorio di influenza, oltre a un certo numero di villaggi in pianura (vici) da cui però gli artigiani specializzati (fabbri, orefici, tessitori, vasai, bottai, ecc.), si spostarono progressivamente e spontaneamente verso la più sicura residenza degli oppida.

Cesare ci ha lasciato alcune splendide descrizioni di questa società ricca e multiforme e in continuo fermento evolutivo.

 

“In tutta la Gallia vi sono due classi di uomini che godono un certo potere e dignità. La plebe è completamente asservita, non prende nessuna iniziativa e non ha nessun potere decisionale. La maggior parte, messa alle strette dai debiti o dagli eccessivi tributi o dai soprusi dei potenti, si consegna ai nobili, che acquistano su di loro gli stessi diritti del padrone sullo schiavo. Delle due classi, una è quella dei druidi, l’altra dei cavalieri. I primi si occupano della religione, amministrano i sacrifici pubblici e privati, regolano le pratiche del culto. Molti giovani si recano da loro per istruirsi e sono molto onorati (…)” (Cesare De Bello Gallico: VI° – 13)

“L’altra classe è quella dei cavalieri. Questi, quando è necessario e scoppia qualche guerra – cosa che, prima dell’arrivo di Cesare, accadeva abitualmente quasi ogni anno, sia che fossero loro a attaccare, sia che dovessero difendersi – prendono tutti parte ai combattimenti circondandosi di ambacti e clienti in quantità più o meno ampia a seconda del rango e della ricchezza. E’ l’unico segno di prestigio e di potenza che (i Galli) conoscono.”(Cesare De Bello Gallico: VI° – 15)

L’organizzazione della società celtica era di tipo aristocratico e monarchico. In Gallia, nel periodo finale, prima dell’invasione Romana, i Re o Rix andarono progressivamente scomparendo sostituti dalla aristocrazia commerciale e guerriera che, riunita in consigli e assemblee (detti da Cesare “senati”), eleggeva una coppia di magistrati detti Vergobet a gestire il potere.

Bisogna tenere presente che il Rix celta non è mai stato un monarca assoluto di stampo orientale, bensì un “primus inter pares” che dalla notte dei tempi veniva eletto dal consiglio della tribù, formato dai guerrieri e dal Druido. Di fatto quindi, il mutamento, almeno nella forma, fu minimo. Nelle isole Britanniche e in Irlanda, poi, la società celtica rimase monarchica sino alla sua dissoluzione.

Strutturalmente, nella società celtica, si può riconoscere la classica società tripartita di origine indoeuropea, così ben analizzata da Dumezil (L’ideologia Tripartita degli Indoeuropei ).

Non si tratta di una divisione in classi, bensì in tre specializzazioni funzionali: i Druidi (sacerdoti), i cavalieri (combattenti), gli artigiani e gli agricoltori (lavoratori manuali).

Quella celtica è una società senza stato, non verticistica, a struttura piramidale del potere, come nelle grandi civiltà mediterranee, ma policentrica, con il potere distribuito a vari livelli secondo le funzioni e i ruoli sociali.

Lo stesso concetto di aristocrazia era legato alle convinzioni mitiche di una comune origine divina di tutto il popolo celtico.

L’insieme della tribù era considerata come un’unica grande famiglia, discendenti tutti da antenati comuni, differenziati tra loro per relazioni gerarchiche, dunque non per nascita o censo, ma solo per il ruolo svolto nella società.

Ancora oggi nei clan Scozzesi, tutti gli uomini del clan hanno stesso cognome e si distinguono tra loro solo per il nome proprio.

Da questa convinzione delle origini divine di tutta la popolazione, deriva il fatto che come Rix potesse venire eletto uno qualsiasi dei Guerrieri della tribù, purché privo di difetti fisici che lo avrebbero interdetto, questo sì, dal partecipare alla cerimonia religiosa di incoronazione.

Al Re spettava infatti, non solo di guidare gli uomini in battaglia, ma anche di garantire buoni raccolti e il giusto clima, intercedendo a nome del suo popolo presso le potenze divine. Proprio per questa sua partecipazione col divino, il Re doveva salvaguardare la sua integrità fisica, pena la perdita del potere di comunicare con l’aldilà. La consacrazione di un Re era un atto sacro che lo rendendeva partecipe del divino, trasformandolo da semplice uomo, a mezzo di comunicazione tra la sua gente e la natura, tra il popolo e il sacro potere della terra; e la persona incaricata di un compito di tale importanza per la comunità non poteva essere altrimenti che fisicamente perfetta, in quanto il minimo danno fisico, malformazione o amputazione, avrebbe potuto inficiare il suo ruolo di tramite con la divinità.

Tutta permeata di religiosità com’era, la sovranità celtica era dunque condannata a scomparire contemporaneamente al paganesimo sotto l’incalzare del cristianesimo, ma, come dimostra la storia delle isole britanniche, la forza del sogno celtico fu tale da infiltrarsi nel mondo cristiano e generare il mito del Graal, del Re Pescatore e infine di Re Artù.

Con l’intervento delle legioni di Cesare, nel 58 avanti Cristo, contro il tentativo di migrazione degli Elvezi, iniziò la conquista della Gallia e la fine dell’indipendenza per i regni celtici continentali.

Nonostante il sussulto d’orgoglio della rivolta di Vercingetorige del 52 a.C., terminata con l’assedio e la resa di Alesia, il declino dell’indipendenza celtica era ormai avviato. In seguito i Galli, in varia misura, si fecero assorbire dall’Impero Romano, portando a una fusione prolifica delle due così diverse mentalità e dando inizio a quel fenomeno artistico-culturale oggi noto col nome di epoca galloromana.

(Tratto da “L’Epopea dei Celti” – Keltia Editrice – Aosta 1996)